Sandra
Per un po’ fui abbastanza triste. Era l’unico modo che avevo per tenermi dentro tutto quello che era successo a Dianium, per non dimenticare né Alberto né Julián né i norvegesi, e neanche il male che avevo vissuto in quella stanza al primo piano di Villa Sol. Era situata a destra, si saliva la scala e si percorrevano una decina di metri di corridoio: dieci metri di diversi tipi di passi, che mi avevano trapanato il cervello. Più o meno di fronte c’era il bagno; ricordavo di aver vomitato nel lavandino con i suoi bellissimi girasoli gialli e di aver provato un autentico terrore per averlo sporcato e non avere la forza di scappare. Adesso sapevo che l’importante è non lasciarsi fiaccare, non lasciarsi intimidire o manipolare. Non era facile evitarlo, ma conoscevo le conseguenze dell’innocenza: il nemico poteva essere chiunque.
Arrivata a Madrid andai direttamente a casa dei miei genitori. In qualsiasi altro momento non avrei sopportato l’idea di quello che avrei dovuto affrontare, ma adesso mi sembrava una stupidaggine. I pianti di mia madre, i consigli di mio padre mentre litigavano e si davano torto a vicenda, una cena calda, qualche rimprovero, un letto confortevole. Entrai in camera mia e lasciai la borsa sul copriletto bianco estivo (mia madre non aveva ancora tirato fuori il piumino, come se in fondo dubitasse che sarei tornata). Mi tolsi gli stivaletti che mi ero comprata a Dianium e mi guardai intorno. Sugli scaffali c’erano ancora i libri di scuola. I poster, la lampada da comodino, la scrivania, tutto aveva una specie di aria adolescenziale. I pensieri iniziarono a schiarirsi: evidentemente ero tornata per andarmene.
Non fu difficile. Mia sorella affittò a un ottimo prezzo un piccolo locale in un centro commerciale e aprimmo un negozio di bigiotteria. Ci andò così bene che potemmo assumere anche una commessa e io feci un mutuo per un appartamento. Santi tornò nella mia vita in un modo più reale di prima. Apprezzai in lui qualità che non avevo mai notato e mi sembrò che potesse essere un buon padre. Non si può stare ad aspettare l’amore perfetto per tutta la vita. L’amore perfetto non è reale, niente che sia perfetto lo è, per cui neanche il nostro rapporto doveva essere perfetto: ci saremmo limitati a vederci ogni tanto e a portare insieme Janín al parco. Gli raccontai a metà quello che avevo vissuto in quei giorni tanto spettrali e isolati da tutto, e a volte mi scappò il nome dell’Anguilla. Preferivo chiamarlo così davanti a Santi per rendere meno intenso e meno forte ciò che provavo per lui, perché Alberto era stato sicuramente l’illusione di cui avevo bisogno per sopportare la tensione che avevo vissuto a Villa Sol, e senza dubbio il suo nome non era solo un nome, era il suo giubbino blu, la sua camicia stropicciata, la cenere della sigaretta che gli cadeva sui mocassini, i suoi capelli lunghi e la sua fronte arrossata dal vento del mare, era il suo odore, il suo sguardo preoccupato e la sua voce che scivolava sotto la porta quando mi aveva detto: “Ti amo”. E poi più niente. Non era tornato in ospedale, né in camera di Julián. Io ero fuggita e lui era rimasto. Santi era felice che avessi messo la testa a posto e avessi deciso che il passato era passato, anche se non era vero.
Per un certo periodo ero stata tentata di tornare a Dianium per cercarlo e togliermelo dalla testa in qualche modo, ma poi il bambino e il lavoro mi prendevano tutto il tempo, il presente mi divorava e a volte sembrava che avessi voltato pagina... finché non cadevo esausta sul letto di notte e mi addormentavo; allora quei giorni mi tornavano in mente, reali come se li stessi vivendo in quel momento.